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Dietro il paesaggio/Versi – Payin’ for it (parte 1)

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di Fabio Donalisio

*** DISCLAIMER ***

(a scanso di equivoci che ci sono, SEMPRE, quando si tocca questo nervo scoperto. E quando non ci sono si creano)

1. Questa NON è un’inchiesta e tantomeno è una denuncia. È una, accorata, riflessione su errori condivisi, alcuni umani, altri più dolosi che concorrono a uno stato di cose malfunzionante sotto diversi aspetti.

2. L’editoria a pagamento non riguarda certo solo la poesia. Mi riferisco alla poesia principalmente per autopsia, e poi perché, se pur non la esaurisce, partecipa ampiamente della piaga.

3. Ho avuto a che fare personalmente con i meccanismi di cui parlo. Esperienze non sempre piacevoli, alcune dolorose, tutte utili per l’autocoscienza come poeta e per la consapevolezza del mondo esterno. Esperienze terminate. Se dio vuole.

 

Pagare per. E pagarla (più o meno cara). Nel re dei circoli viziosi, dove il gatto morde la coda così a fondo da farla sparire, ma sempre gatto, e sempre coda, rimane. Si sa che le cattive pratiche sono le prime a cristallizzarsi, autolegittimarsi prima in prassi assodata, poi in alibi (tutti lo fanno…) e infine in assioma (non è dato fare diversamente). O, come piace chiamarlo, sistema, cui si può dare tutta la colpa e poi comportarsi conseguentemente. Perché non è dato (da chi, non ce lo si chiede quasi mai) diverso agire, appunto. Ed ecco che, nella nebbia della prima veglia, poi sempre più a fuoco man mano che gli occhi si abituano alla luce livida del giorno gelato, si dispiega il variegato paesaggio dei poeti diversamente paganti, e degli editori (?) diversamente incassanti.

Chi si pone come tipografo, tout court, e chi promette cose che di solito non mantiene, cose concrete (distribuzione in librerie [sempre SELEZIONATE!], promozione, esistenza del libro, insomma, al di fuori di un magazzino o di un cassetto), e cose ben più profonde, e astratte (appartenenza al “rango” dei poeti, espansione dell’immaginario, accesso a qualcosa di socialmente spendibile). Promesse ai limiti della circonvenzione d’incapace, con contratti assurdi che chiedono cessione dei diritti per anni e anni in cambio, sostanzialmente, della stampa di (poche) copie, parte delle quali di solito vendute coattivamente all’autore stesso per finanziare le spese di tipografia. Forse non sono all’avanguardia, ma penso ancora che le parole debbano avere un significato.

Editore” fa rima con “imprenditore”. Imprenditore significa investimento, e rischio. Nonché scelta, vaglio, filtro. Un editore investe sui suoi autori, li sceglie, e, nelle forme tutelate dalla legge sul diritto d’autore, li paga. Un imprenditore che pietisce, in nome del “sistema”, un “aiuto”, un “cofinanziamento” per svolgere peraltro solo la primissima parte del suo lavoro, ovvero la stampa, è un imprenditore come minimo zoppo. O che si limita a far suo uno dei dogmi più beceri della “grande” imprenditoria italiana: “se sono in perdita paga lo stato (o qualcun altro), se sono in utile guadagno io”. Solo più in piccolo, più meschinamente ancora. L’opzione B ci sarebbe, e sarebbe più che lecita. Dirsi tipografi e non editori, artigiani e non imprenditori. Eseguire limpide transazioni commerciali in cui si produce, su richiesta dell’autore, un oggetto-libro in tot copie, avendone in cambio un giusto compenso. E finirebbe lì. Ma se l’”editore” non rinuncia alla sua “editorialità” anche in palese dolo, dolo simmetrico e parimenti dolente è quello dell’ “autore” che non rinuncia alla sua “autorialità”. Perché, a voler essere equi, un “sistema” è sempre come minimo costituito da almeno due attori.

A fornire carburante a questo modo opaco di fare editoria è sicuramente l’ “autore”. Anche qui ci sono varie categorie, dall’inetto vanesio all’arrampicatore social-editoriale al vero scrittore con le idee confuse. Di wannabe poets ce ne sono a pacchi, incoraggiati dall’esilità della forma scambiata troppo spesso per rapidità di produzione, sbattimento contenuto a fronte del “prestigio” restituito. E questi, pur ammettendolo di rado (un po’ come una certa categoria di elettori del PdL), son ben contenti di pagare per avere il “libro”. Ma non sono poeti, quindi li lasciamo al loro destino. Quei pochi che poeti lo sono davvero, hanno davanti a sé il mondo a tenuta stagna di un’editoria “vera” che li rifiuta in blocco, e si dividono tra impotenza rancorosa e rassegnazione. Quindi è tutto un florilegio di “pagare è un passaggio obbligato se non conosci nessuno”, “così almeno puoi dire di aver pubblicato”, “lo posso mandare a qualche concorso”, “sì lo so che non ci sarà in Feltrinelli ma magari se lo ordini arriva (falso, in molti casi, lo posso documentare autopticamente)” etc. etc. etc…

E qui si arriva al cuore del problema. Lo scollamento tra poesia e lettura, tra poesia e pubblico, tra poesia ed editoria. Perché i cattivi poeti, gli pseudo-editori e anche i truffatori ci son sempre stati. Ma oggi, oltre al fattore quantitativo esponenziale, ci sono altri scogli, e più profondi, dove il fluire della poesia (quella vera, quella che non fa inchini e marchette) si incaglia. Non che riguardi solo la poesia, la débâcle. Ma la poesia ha la rogna di essere maledettamente più evidente e simbolica. E sta rinascendo. Me ne accorgo ogni giorno di più, trovandomi spesso nel dilemma (giornalistico) di voler giustamente parlar bene di un buon poeta, e provando magari simultaneamente fortissima irritazione nel tirar l’acqua, nolente, al mulino di un “editore” doloso. Ma la responsabilità, di quell’atto, non è del sistema. È mia. E la cosa migliore forse è cominciare a parlarne.

Questo è un inizio, un sasso nello stagno. Approfondiremo. Prima con una riflessione sulle prerogative e sui confini dell’impresa editoriale, e sul suo cocciuto e ormai autistico rifiuto nei confronti della poesia. Poi, volgendo lo sguardo sulla labilissima frontiera che passa tra poesia e vanità, tra libri di versi e sfogatoi, tra poeti e amateurs (e pianificatori). Il che porterà drammaticamente a galla il quesito fondante su COSA sia la poesia. Ma, citando, festina lente. E una cosa per volta, che diamine.

 

(Il titolo di questo pezzo riprende quello del notevolissimo graphic novel di Chester Brown, Io le pago, uscito in edizione italiana pochi mesi fa per Coconino. L’argomento è solo apparentemente lontano)

 

Le puntate precedenti della rubrica Dietro il paesaggio/Versi:

#1 Altri sopralluoghi, su Nicola Peretti


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